Il mio primo giorno delle scuole superiori ci alzammo in piedi a turno per presentarci. Non mi ricordo come si presentò Luca, ma io, a capo chino, dissi il mio nome, che venivo da Povo e che mi piaceva leggere. Povo era il paese sopra Trento dove abitavo, un nome che per un abitante del posto suona generico ma anche un po’ buffo, un po’ come Busto Arsizio per un lombardo. Non dissi mi piace leggere, dissi amo leggere. Mi trovavo in una classe Piano Nazionale Informatica, che in pratica è una specie di istituto tecnico trapiantato in un liceo scientifico. Soprattutto quel primo anno i miei compagni di classe era per buona parte gente venuta su nelle valli da famiglie di agricoltori. Trovarono il fatto che venissi da Povo e che amassi leggere irresistibile, e iniziarono a chiamarmi Povo. Poteva andare peggio, e infatti andò peggio.

 

Luca era un ragazzo biondo, ben piazzato e Trentino fino al midollo, la meglio gioventù di un paesino della valle dell’Adige chiamato Lavis. Non ricordo la prima volta che ci parlai, ho però un primo ricordo di lui: in quei mesi stavamo studiando i promessi sposi e, durante una ricreazione, era seduto vicino a me e leggeva ad alta voce.

“…e Agnese, superba d’averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stia.” si fermò.

“AH! MA CHE DIAMINE È UNA STIA?” chiese. Aveva una voce stentorea, soprattutto quando si faceva prendere dall’entusiasmo.

“Una stia? è un pollaio.” dissi io.

All’epoca avevo un vocabolario eccessivamente sopra le media dei quindicenni. La colpa era di mio padre, professore universitario che bastava sbagliare un accento o usare una parola come sfiga che partiva un ma ti pare di usare questo turpiloquio da bulletto di periferia? Quindi a volte a casa nostra c’era un lessico da fare invidia alla Ginzburg. Sapevo cos’era una stia, così come una crinolina o una spigolatrice.

Dicevamo, spiegai a Luca cos’era una stia. Luca prese a sghignazzare, di una risata soddisfatta e primitiva. Rideva nello stesso modo in cui i pastore tedeschi sorridono. Da quel momento in poi, io fui Stia. Il soprannome prese così piede che per un periodo soppiantò Povo. Era un soprannome così ben attecchito al vernacolo di classe che una volta, quando si tentò di darmi il nuovo soprannome di “Conte Sabbioni”, che era il nome della via in cui vivevo, divenne presto “Conte Stia” (credo un riferimento al Conte Zio). A volte Luca veniva alle mie spalle, le afferrava entrambe e mi scuoteva con forza dicendo:

“AH! VECCHIA STIA!” e poi mi lasciava andare e proseguiva per le sue faccende.

Luca era così, costantemente circondato da una fitta mitologia di parole, nomi e personaggi che quando ne parlava lui sembravano più grandi della vita stessa. Per esempio, la nostra professoressa di italiano era una donnina piccolina che parlava con una voce da scoiattolo, roditore con il quale condivideva anche una straordinaria somiglianza fisica. Veniva a scuola in bicicletta, e Luca faceva osservazioni del tipo:

“EH, CERTO CHE HA DELLE GAMBETTE PROPRIO MUSCOLOSE.” e non ho mai capito del perché sentisse il bisogno di farlo notare.

In classe, le frequenti occasioni in cui facevamo confusione, ci riprendeva dicendo “Dai, smettetela” oppure “Dai, silenzio.” In effetti metteva la parola dai praticamente all’inizio di ogni frase. Luca lo trovò irresistibile, iniziò ad usarla pure lui, e noi con lui, e finì che divenne di moda pure a Lavis.

Luca era un maestro del trovare il divertente nel mondano. Per esempio trovava esilarante che la professoressa si firmasse sempre professoressa C., perchè quando lo leggevi ad alta voce, “PROFESSORESSA CIPUNTO” era effettivamente divertente.

 

Un giorno Luca venne da me e mi chiese:

“AH! VECCHIA STIA, QUANDO È CHE CI INVITI ALLA CENA TEX?”

Nel linguaggio di Luca, come si può capire dal trattamento usato con il nome della nostra prof di italiano, spesso le parole composte venivano troncate, così che un metal detector diventava un METAL, uno sturalavandini diventava uno STURA, o il suo leggendario amico Mario Pallaoro era finito per diventare MARIOPA’.

In quel periodo nella mia famiglia andava di moda la cosiddetta cena tex-mex. Si prendeva del macinato di manzo e lo si cuoceva, si facevano dei fagioli in umido con il pomodoro e dell’insalata, e si arrotolava il tutto in una piadina. Stava alla cucina messicana come la pizza con l’ananas o la pasta col ketchup stavano a quella italiana, ma all’epoca faceva parecchio esotico. Lo avevo accennato a Luca, e lui ne era rimasto intrigato, così decisi di invitarlo, insieme ad alcuni altri compagni di classe.

Avevo deciso di strafare. Avevo cercato su internet come fare della panna acida in casa, e avevo comprato anche l’allora rarissima salsa di peperoncini messicani. Avevo impastato e steso i tacos con le mie mani. Lo considero tutt’ora un successo.

Erano le otto di un giovedì sera. Feci entrare i miei amici in casa, togliere le scarpe e accomodare a tavola. Ero molto orgoglioso della mia bella tavolata imbandita, con tutte le ciotoline di salse, la pila di tortilla e il pentolone di macinato.

Lo spirito trentino di Luca lo fece subito dirigere sui fagioli, speranzoso di trovare i natii FASOI EN BRONZON. Li guardò con malcelato disgusto.

“AH! CERTO CHE QUESTI FAGIOLI SONO UN PO’ POCHINI.” disse spatolandone metà nella sua tortilla.

“QUESTA PANNA ACIDA COMUNQUE NON È MOLTO ACIDA.” aggiunse, decapitando metà burrito con un morso solo.

“Mi dispiace Luca, era la prima volta che la facevo.

“VA BENE, PERÒ ANCHE QUESTA SALSA PICCANTE NON È TANTO PICCANTE, IN MESSICO I PEPERONCINI LI TRITANO FRESCHI CON LE LORO MANI.”

Non ricordo se lo invitai più a cena.

 

Luca un giorno venne da me e mi chiese:

“AH, VECCHIA STIA! VUOI VENIRE ANCHE TE A FARE LA TRANS?”

Dopo un comprensibile attimo di smarrimento, domandai che cosa intendesse.
Si trattava della trans-Lagorai. La trans-Lagorai è un cammino mediamente impegnativo che attraversa la catena trentina del Lagorai. Luca ne era molto eccitato, il suo sangue trentino ribolliva al pensiero di compiere la traversata. Gli chiesi se era difficile da fare e lui rispose:

“AH! MACCHÈ DIFFICILE, LA FANNO ANCHE I PADRI DI LAVIS CON I BAMBINI DELL’ORATORIO.”

All’epoca non lo sapevo, ma quella è la sua risposta standard a qualsiasi domanda riguardo a una gita in montagna. Se Luca fosse stato un patriarca Ebreo, avrebbe detto così alle tribù di Israele prima di lasciare l’Egitto.

Luca amava le sfide, e andare in montagna con lui non contemplava godersi il paesaggio e mangiare lo stufato di capriolo una volta arrivati, quanto camminare il più possibile il più a lungo possibile sul sentiero meno simile a un sentiero che si potesse trovare. E una volta arrivati alla meta, lo si vedeva già guardarsi intorno, in cerca di una meta secondaria che “È ANCORA PRESTO, POTREMO BEN CAMMINARE ANCORA UN PO’.”

Partimmo per la trans-Lagorai una mattina di estate inoltrata, venendo subito incoraggiati da una bella nevicata settembrina. Con noi si trovava il nostro compagno di classe Michele, anche lui come Luca con un passato da Scout, il che mi rendeva l’unico salame del gruppo.

Ovviamente un montanaro esperto sa anche essere un buon leader, e incoraggiare i suoi compagni escursionisti inesperti. Infatti non ricordo una gita con Luca in cui non sentissi continuamente, di solito mezzo chilometro davanti a me, una voce urlarmi:

“AH, CERTO CHE POTEVI METTERTI DEGLI SCARPONI PIÙ PESANTI! E PORTARTI DIETRO PIÙ ACQUA, E METTERTI UNA MAGLIETTA DI RICAMBIO! DAI, IO MENTRE RIPRENDI IL FIATO VADO AVANTI, CI VEDIAMO SU.”

Approfittando del fatto che io ero costantemente tre quarti d’ora dietro a lui, Luca complottava scherzi con Michele.

“DAI FACCIAMO PENSARE A STIA CHE ABBIAMO LASCIATO LE TENDE IN MACCHINA! O CHE NON ABBIAMO ACQUA E DOBBIAMO ACCENDERE UN FUOCO E FAR SCIOGLIERE LA NEVE!”

Poi il giorno dopo dimenticammo i fornelli a gas al primo campo, costringendo Luca a tre ore di marcia sotto la pioggia per tornare a prenderli. Io rimasi a fare la guardia in una grotta riparata masticando Ritter Sport e leggendo un buon libro. Quando Luca tornò più morto che vivo, non dico che ero contento, ma triste triste non ero.

Battezzammo la grotta “Spelonca Sabbioni”.  

Ci accampammo nei pressi della spelonca, in un quadrato delimitato dal muretto di una trincea della prima guerra mondiale miracolosamente delle stesse dimensioni della nostra tenda.

Il giorno dopo partimmo di buon’ora, solo per ritrovarci un paio d’ore dopo persi in mezzo a un ghiaione e senza più acqua. Tirata fuori la cartina vedemmo che, in teoria, nei paraggi avremmo potuto trovare le dolci acque del “Laghetto Pieroni.”

Arrivammo nei pressi di qualcosa troppo piccolo per essere chiamato stagno e troppo grande per essere una pozzanghera. Le sue acqua erano torbide e ricolme di vermetti nuotatori che, secondo l’esperto Luca, erano comuni in quelle zone.

“STAI ATTENTO A NON BERTELI ALTRIMENTI TI NIDIFICANO NELLA PANCIA!”

Bollimmo un litro circa d’acqua nelle nostre gavette (“SI CHIAMANO GAMELLE, PARLA ITALIANO MONA”) e ci permise di continuare la marcia. Il laghetto venne ribattezzato Laghetto Vidoni, in onore del nostro professore di arte.

Dopo ore di marcia mi trovavo ormai in piedi solo grazie a un bastone fortuitamente trovato sulla strada. Michele, dall’alto delle forcelle che lui e Luca avevano raggiunto con quasi un’ora di anticipo rispetto a me diceva:

“Dai, ancora uno sforzo! Qui c’è un chioschetto che fa gelati e granite siciliane” e ovviamente non ci credevo, ma ero messo così male che perfino quello era in grado di motivarmi.

Conservo nonostante tutto un bel ricordo di quella gita: la terminammo in una valletta erbosa, in cui era stato costruito in bivacco di legno. Luca e Michele, mentre li raggiungevo, avevano acceso la stufa, e il fumo del camino mi fece raggiungere la meta. Mangiammo speck e polenta e ci addormentammo sotto il più bel cielo stellato della mia vita.

Il giorno dopo saremmo dovuti partire per altri tre giorni di marcia, ma Michele ebbe pietà di me e convincemmo un riluttantissimo Luca a interrompere la traversata. Gli promettemmo di completarla l’anno dopo, ed infatti, 365 giorni dopo esatti ci trovammo di nuovo accampati in nella trincea della Spelonca Sabbioni. E 366 giorni dopo eravamo di nuovo distrutti e di ritorno a casa con un ancora più incazzato Luca che “POTEVAMO BEN FINIRLA QUEST’ANNO, CI TORNO CON MARIOPA’ E LA FINIAMO IN DUE GIORNI, CERTO CHE SEI UN BEL PIGRO STIAAAA”.
 

La nostra professoressa di storia e filosofia è uno dei ricordi più terrificanti della mia adolescenza. Era una creatura di una severità quasi mitologica. Una Virago, avrebbe forse detto mio padre. Ogni lezione c’era il rischio che interrogasse, senza preavviso e su tutto il programma, il che comprendeva il programma dell’anno prima se si era a inizio semestre. I trenta secondi in cui guardava il registro erano dello stesso materiale di cui sono fatte le pagine dei libri di Solzhenitsin.

A proposito, passammo molto tempo sulla storia russa. Lo ricordo perchè ogni tanto, mentre spiegava diceva una cosa del tipo:

“Per quanto riguarda PIETRO…”, perchè i nomi lei, a prescindere da chi si trattasse, li urlava alzando il tono di voce di due tacche, e a me veniva un mezzo infarto, “… il grande, Zar di Russia…” e così via, almeno tre volte a lezione, e faceva sempre paura. E non ero solo nel tormento.   

“E ora parleremo di MICHELE…” e l’amico Michele sbiancava a due banchi di distanza. “…Romanov.”

Una volta ci spiegò della posizione di Platone nei confronti della musica e le arti. Non fu un discorso poi troppo approfondito, sul mio quaderno si tradusse in appena mezza paginetta di appunti.

“EH, MA QUESTE COSE ARTISTICHE CE LE CHIEDE?” mi chiese Luca.

“Ma non so Luca, penso di no.” risposi io, probabilmente pensando ad altro.

La volta dopo Luca andò dalla prof.

“MA PROF, IL RAPPORTO DI PLATONE CON L’ARTE CE LO CHIEDE A INTERROGAZIONE O NO?” disse.

“Ma Luca, che domande, tutto quello che spiego a lezione ve lo chiedo.” disse lei.

“AH! MA PIETRO MI AVEVA DETTO CHE NON LO CHIEDEVA!” disse.

Mi rimpicciolii. La Prof mi guardò con lo sguardo di un giudice istruttore del KGB.

Tornai al banco cinque minuti di abuso verbale più tardi. Luca sembrava sinceramente contrito.

“AH, SCUSA SAI, NON CI AVEVO PENSATO CHE SAREBBE FINITA COSÌ.”

“Non ti preoccupare Luca.”

“SAI, IO SONO MOLTO SPONTANEO, OGNI TANTO DICO LE COSE SENZA PENSARCI.”

“Sì, Luca, ho visto, ma non preoccuparti.”

“AH! SEI ARRABBIATO?”

“Luca, lascia stare, non ho voglia di parlare.”

“MA PERCHEEEE, PERCHEEEEE, PERCHEEE…?”

Al quarto perchè, mi voltai verso di lui con sulla fronte una vena pulsante larga un centimetro.

“Muto! Muto! Muto!” gli urlai contro, colpendolo tre volte con il miglior pugno del mio repertorio. All’epoca, e ancora oggi, Luca è grande e grosso, e fu come colpire con un blocco di polistirolo i glutei dell’incredibile Hulk. Luca mi guardò perplesso, assolutamente immobile e impassibile. Restammo in silenzio. Tornai a fare le mie cose.

“NON TI PREOCCUPARE, NON MI HAI FATTO MALE.” mi disse Luca.

“Bene Luca, non farti male era la mia priorità.”

“NON MI HAI NEMMENO SPAVENTATO, ERI ANCHE UN PO’ BUFFO A DIRE IL VERO.”

“Grazie Luca, era proprio quello che volevo sentire.”

 

Io e Luca siamo ancora amici. Ogni tanto mi telefona e fa:

“AH! VECCHIA STIA! VUOI VENIRE A CENA A CASA DI MARIOPA’?”

Nella stube di Mariopa’ ci siamo andati pure l’altra sera. Appena dentro, ho notato una grande quantità di Piadine sul tavolo. Ho cercato istintivamente gli affettati, ma ho visto che al loro posto sul fuoco ribolliva un pentolone di fagioli. Vicino, c’era una padella di macinato cotto in padella. Ho cercato la salsa piccante, e l’ho trovata subito. La cena che avevo preparato 15 anni prima, e di cui mi ero ormai dimenticato, si era conservata come una parola spagnola dimenticata si conserva in una lingua creola della foresta amazzonica. Ogni cosa era stata replicata con dolorosa attenzione ai dettagli, e si era tramandata nella tradizione degli amici dell’oratorio di Lavis per oltre un decennio. In quel momento pensai a quanto, in fondo, voglia bene a quel faccione da culo del mio amico Luca.

Lascia un commento