Rubare il cibo da un frigo condiviso con i tuoi coinquilini è un’arte. è un furto da ladri gentiluomini, non da scrocconi morti di fame. Ha una sua etica e una sua prassi. Innanzitutto, non si scrocca da un frigo condiviso da meno di dieci persone. È maleducato ed è troppo facile capire che siete stati voi. Quindi meglio farlo in uno studentato piuttosto che in un appartamento. Prima di tutto vediamo le cose che non si scroccano: le uova mai, se sono fresche di solito le sta per mangiare qualcuno, quelle dimenticate sono ormai andate a male e dovreste piuttosto buttarle.

Ovviamente carne e pesce crudi sono off limits, se qualcuno li ha comprati vuol dire che li deve cucinare presto, anche il più impedito dei cuochi sa che deve cucinarli a uno o due giorni dall’acquisto. La pancetta per carbonara è un’eccezione, quella spesso finisce dimenticata e si indurisce, quindi potete tirarla fuori, tagliare via la parte dura ed usarla, (anche se chi si dimentica la pancetta in frigo la compra più spesso a cubetti). Lo stesso vale per il grana e il parmigiano.

Il latte è una zona grigia: ci sono persone che lo comprano per berlo tutti i giorni, altri che ne comprano un cartone e lo usano appena, che poi va a male e devono buttarlo via. I primi lasciateli stare, meritano rispetto. I secondi sono i vostri bersagli, e li potete riconoscere perché comprano solo latte a lunga conservazione. Non bevete il loro latte, usatelo per allungare il caffè, o per cucinare, magari per dare corpo a un sugo o una salsa. Usatene poco, un goccio, usarne di più non è educato. Il burro si scrocca in modo analogo.

Molto scroccabili sono le cipolle, appena iniziano a germogliare è il segnale per essere colte. Parlando di piatti pronti, il prodotto più scroccabile sono le torte salate. Pochi lo sanno, ma le torte salate sono di quei prodotti che, dopo una festa, vengono dimenticati in frigo. Se vedete una torta salata lasciata lì da più di due giorni, vuol dire che la potete mangiare, e nessuno ve lo rimprovererà. Ricordo di aver vissuto in Russia per una settimana con una torta salata avanzata, per un motivo a me ignoto i Russi avanzano spesso le loro torte salate. In effetti i frighi all’estero meriterebbero un discorso a parte, come il frigo dell’ostello di Sumida, Tokyo, dove passai alcuni mesi della mia vita da nomade.

Ognuno, in quel frigo, scriveva il suo nome sui suoi cibi, questo rendeva scroccare molto più sicuro, bastava prendere le cose su cui non c’era nome e per cui chiaramente nessuno provava attaccamento. Così si avevano la maggior parte delle salse di base (maionese, ketchup e soia) assolutamente gratis, e anche le verdure a volte, perché in Giappone tutto viene venduto in porzioni da uno e mezzo, che ne avanza sempre un po’ e te lo dimentichi in frigo. Altamente scroccabile.

Purtroppo Tokyo è anche il luogo in cui incontrai il mio nemico naturale.

Mi ricordo della prima volta che lo incontrai. Era estate, ed ero appena rientrato nel mio dormitorio dopo una passeggiata. Il dormitorio non ospitava letti a castello, come ci sarebbe da aspettarsi, ma dei piccoli loculi di circa un metro per due separati dal corridoio da una tendina. Una specie di minuscola camera singola, o la versione casereccia di un capsule hotel che forse avete visto in uno di quei documentari sul Giappone dove mostrano tutte le cose strane.

Mi ricordo che era estate perché ero grondante di sudore. Le estati giapponesi sono calde e umide, e camminare più di venti minuti ti riduce così, perdipiù se come me eri in camicia di ritorno dal lavoro.

Stavo per cambiarmi quando una delle tendine si scostò, lasciando uscire un ragazzo giapponese. Andò alla finestra, la aprì e mi disse:

“Scusami, tuo odore di corpo molto forte, perché tu occidentale.”

In pratica, tentando di trovare un modo gentile per dirmi che puzzavo, era perfino riuscito a fare peggio ed essere un pelo razzista.  

Il ragazzo non era altri che Taro, il tiratore di risciò. Tirare risciò non è un lavoro diffuso in Giappone, se non nel quartiere turistico di Asakusa, dove tutto è stato mantenuto come secoli fa, ed è possibile farsi trascinare in giro da un energumeno in mutandoni mentre si mangia un gelato al the verde. Taro era uno di loro, tarchiato, con gambe grosse come bresaole incredibilmente nere fino alla caviglia, e da lì in poi di un bianco quasi cadaverico, perché i tiratori di risciò lavorano in braghe corte, sandali e calzini.

L’aspetto più surreale di Taro è che conosceva un po’ di Italiano, un po’ come un gondoliere parla male in tutte le lingue del mondo.

Iniziarono subito gli attriti. Prima di tutto, Taro iniziò a impossessarsi del cibo neutrale del frigo. Tutto quel cibo che una volta era un inno allo scrocco, una poesia che parlava di una società fatta di condivisione più o meno volontaria, divenne di Taro. Non appena trovava del cibo senza nome, ci scriveva il suo nome sopra e se ne impossessava. E poi non lo mangiava nemmeno. Lo faceva perché poteva.

Mi ritrovai una mattina, aprendo il frigo, con i miei udon strizzati tra due daikon e una confezione di miso, e poco distante un intero ripiano pieno di pacchetti di riso cotto e scatoline di natto tutti con scritto sopra TARO. Il natto è una pappa di fagioli fermentati che viene di solito venduto in confezioni da tre o quattro scatoline. Taro le tirava fuori dal pacco, ci scriveva Taro sopra una a una,  poi le rimetteva dentro, e infine scriveva Taro anche sulla confezione. Taro era un innovatore, introdusse il concetto di ripiano: ora se tu mettevi cibo nel suo, veniva da te e diceva:

“Scusa, tuo cibo in mio ripiano, sposta per favore?”

Quindi ci ritrovammo in quindici a dividere tre ripiani, col quarto unicamente dedicato al cibo da culturista di Taro.

Non mi capacitavo come potesse riempire il frigo di roba, dato che lo vedevo quasi sempre mangiare il cibo precotto del konbini, ossia il negozietto aperto 24 ore vicino all’ostello. Gli studenti e i lavoratori single giapponesi mangiano il 50% del tempo ai konbini, e c’è tutta un’arte nell’assemblare un pasto da konbini, che consiste nel sapere come combinare i vari pranzi precotti in modo da ottenere una pietanza del tutto diversa. Per esempio, si possono comprare delle uova precotte e dell’arrosto di maiale da mettere nel tuo ramen istantaneo, oppure una scatolina di sgombro al miso da mettere sul tuo riso saltato. Questi sono solo esempi, se avrete mai degli amici giapponesi rimarrete stupefatti dalla fantasia con cui assemblano i loro pasti da konbini. Taro ovviamente faceva eccezione. I suoi pranzi da konbini erano di una tristezza cosmica. Comprava uova sode e riso in bianco, e ingurgitava il tutto con bottiglioni da due litri di tè verde. Si vedeva che non provava piacere, era solo carburante per lui. Un cuoco prende ingredienti e gli rende un’opera d’arte, Taro prendeva cibo e lo trasformava in proteine ed escrementi.

“Un cuoco prende ingredienti e gli rende un’opera d’arte, Taro prende cibo e lo trasforma in proteine ed escrementi.” dissi a Linus, mentre costruivamo una torre di legno altissima in Minecraft, seduti davanti alla televisione della cucina.

“Tu hai dei problemi.” mi disse Linus, decorando la cima della torre con delle torce.

Linus era un ragazzo tedesco, finito a Tokyo per un tirocinio in un’azienda di elettrodomestici. Lavorava svogliatamente, indossando una specie di finta camicia fatta del tessuto delle polo, pensata apposta per pigri impiegati scapoli, che non bisognava stirare e forse nemmeno lavare. La sera ci rilassavamo giocando a Minecraft e bevendo Strong 9, un cocktail dolcino dalla spaventosa gradazione alcolica. Linus era un moderno Gatsby, disilluso dalla vita e dall’amore, ma dotato anche di una dose di cazzoneria che al personaggio di Fitzgerald mancava. Avevamo fatto amicizia perché gli avevo svelato la mia tecnica segreta di Tinder, che consiste nel scrivere semplicemente il nome della ragazza con cui stai parlando seguito da un punto esclamativo come primo messaggio, così loro fanno lo stesso, hai rotto il ghiaccio e da lì è tutto in discesa.

“Tu hai dei problemi.” disse Linus, dicevo.

“Problemi? Lui ce li ha i problemi. Ma hai visto la sua sveglia?” risposi.

Nella cabina di Taro c’era una sveglia che sembrava quella di Willie il Coyote. Enorme, di metallo, che ogni mattina squillava per mezzo minuto prima di venire spenta, facendomi ogni volta pensare che l’ostello stesse andando a fuoco.

“Per non parlare di quando salta giù dalla sua cabina. Peserà cento chili, è praticamente un meteorite.” aggiunse Linus, lasciandomi un piccone d’oro per terra.

“Taro di merda.” dissi io. “Dici che c’è un modo per farlo cacciare via?”

“Io sono quasi riuscito a farmi cacciare via una volta. Avevo portato una ragazza nella mia cabina.”

“Ahia. Avete fatto molto rumore?”

“All’epoca mi era sembrata una buona idea, ma ho tenuto sveglio l’intero dormitorio e qualcuno ha fatto la spia.”

“Conseguenze?”

“Il giorno dopo la segretaria dell’ostello mi ha portato dal direttore e mi hanno fatto una specie di tribunale della vergogna. Io gli ho detto che mi dispiaceva molto e ora se sono con una vado in un Love Hotel con le stanze a tema medievale qui vicino.”

“Non penso funzionerebbe.”

“Ma che dici, è fighissimo, il letto è a forma di trono di spade!”

“No, mi riferisco a far cacciare via Taro per via di una donna. Insomma, uno così chi se lo piglia?”

“Hai anche ragione.” disse Linus, inseguendo un maiale con arco e frecce.  

Ritornai un paio d’ore dopo in dormitorio: la mia valigia e i miei vestiti, che tenevo rispettivamente in un angolo della stanza e su un appendiabiti in comune, erano stati ammassati nel centro della stanza, dove sarebbero chiaramente stati rimossi al primo turno di pulizie. Capì chi era stato perfino prima di vedere l’appendiabiti tutto occupato da una sfilza di kimono e calzini da tiratore di risciò. Mi catapultai in cucina.

Trovai taro in cucina intento a mangiare una mezza dozzina di onigiri (polpette di riso) all’umeboshi (una prugna così aspra che se poi mangi un limone sembra il gianduia).

“Hai spostato te i miei vestiti?” gli urlai in muso, sbattendo le mani sul tavolo.

Lui deglutì con calma il suo onigiri, poi disse:

“No, è stato un altro, no io.”

E invece era stato proprio lui.

Tornai in camera, e trovai Linus che cercava di trovare posto per la propria valigia nel suo loculo. Anche la sua roba era stata messa nel centro della stanza.

“Taro di merda.” disse.

“Taro di merda.” risposi.

Qualche sera dopo, Ethan ci invitò al Karaoke. Ethan era la mia persona preferita al mondo. Lo si vedeva in giro per l’ostello con le sue tre magliette da metallaro, che indossava in una regolare rotazione. Come ogni metallaro, aveva capelli lunghissimi e riccioli degni di una principessa. Una volta era stato perfino fermato per strada per fare un set fotografico. Era la versione ventottenne del tuo amico delle elementari che viene a suonarti il campanello e ti fa se vuoi venire a giocare invece che fare i compiti. Una volta mi era comparso vicino e mi aveva detto “hai sentito questa canzone dei Dragonland? è fighissima.” Quindi mi aveva dato un auricolare del suo scassato lettore mp3, ci eravamo seduti ed avevamo ascoltato la canzone. E diamine, era davvero una gran bella canzone.

Andammo al Karaoke insieme ad altra gente dell’ostello e qualche ospite, tra cui due ragazze giapponesi, che con i loro abiti da sera cortissimi facevano un po’ sfigurare le polamice di Linus e la magliettazza dei Kreator di Ethan. Io vorrei dire che ero ambasciatore dello stile italiano nel mondo, ma no, avevo una maglietta di Pulp Fiction che usavo anche come pigiama.
Partimmo con Moscau, una canzone tedesca che parla della capitale russa cantata da un complesso ultra kitch anni 80 vestiti da power rangers mongoli, che era il nostro cavallo di battaglia perché io improvvisavo una danza cosacca mentre Linus dava sfogo alla sua verve teutonica tutta einz zwei.  

Poi Ethan fece partire Wham Rap, un altro pezzo anni 80 da paura, di un giovanissimo George Micheal, che ci piaceva percé Ethan diceva “say wham!” e noi rispondevamo tutti “wham!”

Poi partiva Piano Man, e tutti la cantavamo abbracciati con gli accendini alzati al cielo. Fu dopo di quella che vidi Linus sparire con una delle due ragazze. Dopo dieci minuti, non erano ancora tornati, e chiesi a Ethan: “hai visto Linus?”

In quel momento, il pavimento iniziò a tremare. I muri iniziarono a tremare, le coppe di gelato e Fanta all’uva si rovesciarono sul tavolo. Tutti i cellulari della stanza iniziarono a sparare a manetta un suono che non avevo mai sentito prima, simile ad una sirena, e a ripetere una frase che in seguito avrei saputo significare “allarme! Terremoto!”. La ragazza giapponese dalla vertiginosa minigonna mi si aggrappò addosso, e per un attimo pensai di chiederle di sposarmi prima che tutto fosse perduto. Ma tutto finì nel giro di un respiro, e a parte le bibite rovesciate per terra non ci furono altri danni. Fu il mio primo terremoto in Giappone, all’epoca fu abbastanza emozionante, ma poi mi spiegarono che capitava abbastanza spesso.

Quell’episodio sembrò quasi un segnale per terminare la serata. Ethan restò a cantare una canzone degli Iron Maiden, mentre io chiesi alla ragazza rimasta se voleva essere accompagnata a casa.

Un’oretta dopo la stavo aiutando ad entrare nella mia cabina. “Wow, so cozy!” disse lei, entrando, perché i giapponesi hanno questa cosa che mentono per cortesia. Mi stavo issando anch’io quando sentì un fruscio alle mie spalle: la testa di Taro era spuntata dalla tendina del suo loculo.

“Scusa me, ma può non fare rumore che io dorme?”

Lo guardai fisso negli occhi, serissimo.

“Tranquillo Taro. Farò esattamente la giusta quantità di rumore.”

Il giorno dopo, Taro uscì dal suo loculo con due occhiaie che gli arrivavano alle ginocchia. Mi trovò intento a bere con una cannuccia da un cartone di succo d’arancia del konbini, avvolto nel mio accappatoio di microfibra blu, aperto sulle mie pudenda villose ancora grondanti di succhi vaginali.

“Ehilà!” gli dissi.

Scappò via emettendo fumo dalle orecchie.

Trovai Linus che fumava accovacciato per strada, ancora nella sua polomicia.

“Ma dove eri finito ieri sera? Trono di spade?” gli chiesi.

“Magari, eravamo in ascensore quando è iniziato il terremoto.”

“Oddio, siete rimasti bloccati?”

“Molto meglio. L’ascensore si è fermato al piano di sotto, dove c’è un supermercato. Abbiamo passato la notte mangiando patatine e bevendo strong 9!”

Era la classica storia da Linus, che meriterebbe un racconto a parte. Ma ero contento che stesse bene, e che quella notte non fosse tornato in camera, così che solo Taro rimase vittima dei nostri schiamazzi.

A tale proposito, la segretaria venne a cercarmi, e dovetti pagare 20 euro circa di multa, dato che “qualcuno” aveva segnalato un ospite illegale in dormitorio quella notte.

Taro da quel giorno mi evitò sempre, e lo considero tuttora una vittoria personale. Non tanto per averlo tenuto sveglio una notte, ma perché quell’episodio lo rese perfino più paranoico di quanto lo fosse prima, e quello fu l’inizio della sua fine.

Iniziò a lamentarsi di ogni minimo rumore notturno, tosse, passi, la porta del bagno che si apriva e chiudeva. Quando iniziò a svegliare le persone che russavano per farle smettere, la direzione dell’ostello decise che era il momento di prendere una decisione, e lo cacciò a pedate. Ebbe appena il tempo di impacchettare la sua roba, tanto che lasciò in frigo gran parte delle sue scorte alimentari, mezzo cavolo cinese, funghi, uova e anche del tofu. Che, guarda te, sono proprio gli ingredienti che servono per preparare un nabe, un piatto giapponese che alla fine è un gran pentolone pieno di cose buone che si condivide in compagnia, e che io condivisi con i miei amici.

E questo è grossomodo come si scrocca da un frigo.

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