Mi svegliai con un mal di testa diffuso che infestava la parte posteriore della mia testa come un fantasma infesta i sotterranei di un castello scozzese. Non vidi la ragazza limone correre fuori dalla finestra, e capì subito di aver ancora dormito troppo a lungo, e l’orologio a forma di gatto sul comodino me ne diede conferma, mostrandomi un elegante dodici zero zero color smeraldo su nero. Decisi di saltare colazione, un pasto che non mi era mai piaciuto, tantomeno nella sua variante giapponese a base di pesce e prodotti fermentati, e passare subito al pranzo. Cucinare mi piaceva, e mi aiutava sempre a superare i miei malditesta mattutini. Accesi il mio giradischi Steiner, e appoggiai la puntina sulla superficie di vinile rotante di A Turn of a Friendly Car degli Alan Parsons Project. La maggior parte delle persone li preferisce per la hit Eyes in the Sky, ma io l’avevo sempre trovata troppo commerciale, e amavo quel concept album incentrato unicamente sul gioco d’azzardo. In cucina trovai una mezza confezione di rigatoni, del pomodoro e un pezzo di bacon, l’ideale per cucinare una bella amatriciana. Mentre l’acqua si scaldava, versai un po’ d’olio in una padella e vi feci soffriggere uno spicchio d’aglio in camicia. Poi aggiunsi il bacon tagliato a cubetti, e poi il pomodoro che si adagiò sul fondo della padella sfrigolando allegramente. Scolai i rigatoni al dente, e li feci saltare finchè non furono ben ricoperti dal sugo. 

Mikiko era ancora da sua madre, quindi mi sentii libero di mangiare direttamente dalla padella. Avevo appena avvicinato un boccone alla bocca, quando qualcosa mi fece bloccare. Era una sensazione simile al malditesta con cui mi ero svegliato, o forse solo nello stesso punto del cervello in cui avevo avvertito il mal di testa. La stessa sensazione di quando il bullo Kazawa mi aveva assalito alle spalle nei bagni delle nostre scuole medie, l’aura di un predatore. 

Mi alzai, e mi voltai lentamente. Il salotto, alle mie spalle, era deserto. Feci vagare lo sguardo, sul divano rovinato dalle artigliate del mio gatto Sanosuke, sulla libreria con i miei libri di Dostoevski e Faulkner, sulla finestra dalla quale vedevo ogni mattina la ragazza limone. Ma non c’era nulla, nessuno, quell’aura sembrava un’ombra gettata da un uomo invisibile. Chiusi gli occhi, cercando di capire meglio, di sentire da dove provenisse. Lo capì, non appena le palpebre chiuse gettarono il mio mondo nel buio: la finestrella. Era una piccola finestra che dava sul palazzo accanto al nostro. Dopo la fine della ristrutturazione del nostro appartamento era rimasta lì, memoria della porta di un bagno di quando una volta il mio palazzo e quello adiacente ospitavano un unico grande appartamento. Avevano costruito la finestrella sopra la porta del bagno, come primitivo metodo di areazione, ma ora al posto della porta c’era lo scaffale con i miei libri, la televisione e le statuine di gatto di ceramica di Mikiko. Quando ci eravamo trasferiti ci eravamo ripromessi di murare la finestrella, ma non lo avevamo mai fatto. Il suo vetro opaco dava su una stanza deserta, e alla fine ci eravamo abituati alla sua presenza. Ma non a quella presenza, quella che sentivo quel giorno, di un predatore che mi fissava, aspettando il momento più opportuno. Riaprii gli occhi. Se concentravo il mio sguardo su quel vetro opaco, mi sembrava addirittura che ci fossero delle ombre la dietro, in impercettibile movimento. 

Improvvisamente mi dispiacqui per l’amatriciana, che mi aspettava invitante nella padella, promettendo di scuocersi da un momento all’altro. Però ne ero sicuro, la finestrella era diversa, la luce che lasciava filtrare non era la solita. Mi avvicinai. Trascinai con me la sedia della cucina, e la posizionai davanti allo scaffale. Mi ci issai sopra, e ispezionai con le dita la cornice della finestrella, il perno di metallo che la teneva ferma. Non l’avevo mai fatto prima, la superficie di metallo verniciato si svelò sotto le mie dita come una nuova giovane amante. Sentivo il perno ballare nella scanalatura. Lo tirai, e la finestra si aprì di scatto verso il basso, trascinata dalla forza di gravità. Dietro si trovavano due natiche ampie e rotonde, appena rovinate da qualche grinza, come un caco lasciato troppo a lungo sul ramo. Prima che avessi tempo di fiatare, le natiche produssero un sonoro peto che investì la mia faccia con l’odore dell’alga kombu lasciata troppo a lungo nell’acqua. Capitombolai all’indietro sul pavimento del mio salotto, piombando sul sedere. Una fitta di dolore si propagò dall’osso sacro fino al mio collo. Quando svanì, mi resi conto di avere un’erezione. 

“Murakami, vecchio pazzo che non sei altro.” Dissi tra me, nello stesso istante in cui la goccia piombò sulla pagina del libro. Guardai in alto: una chiazza di umidità opaca mi salutava dal soffitto scrostato del mio monolocale. Un’altra goccia penzolava dal suo centro come un minuscolo pisellino arrogante, al contempo indicatore e sbeffeggiatore dello stato miserabile del mio appartamento.

Imprecai. Quella non era mai successa prima. La finestra si apriva se il vento era troppo forte, la caldaia smetteva di funzionare se pioveva e il telefono della doccia sembrava avesse i calcoli, ma quella era decisamente una novità. Non sapevo nemmeno cosa ci fosse sopra il mio appartamento. Un casino d’acqua, a occhio e croce. 

Pensai rapidamente ai casi in cui può succedere una cosa del genere. Ai tempi d’oro, quando io e Mick il danese facevamo la bella vita in un appartamentino ucraino straripante di orribili statuine di porcellana, avevamo una lavatrice che scaricava tutta l’acqua da un tubo che penzolava nel vuoto, e che era meglio per te se lo infilavi nella vasca da bagno se non volevi che il pavimento del bagno si allagasse. Ovviamente io una volta me ne ero dimenticato, e avevo passato ore ad asciugare il suddetto pavimento, con l’acqua che, per una ragione su cui non voglio riflettere troppo, mi pizzicava i piedi di brevi scosse elettriche. Purtroppo l’acqua era filtrata attraverso il pavimento, lasciando sul soffitto dei vicini al piano di sotto una macchia molto simile a quella che adesso si trovava sul mio soffitto italiano. Per fortuna, dato che la grivnia Ucraina è svalutata all’inverosimile, me l’ero cavata con 30 euro con cui il vicino aveva assoldato un imbianchino, facendomi contemplare l’ipotesi di pagare anche gli studi di suo figlio. 

Quella era una delle possibili cause di una macchia d’umidità gocciolante, ma non l’unica, e comunque non era quello il punto, il punto era che il mio vicino del piano di sopra mi stava sgocciolando in salotto e quella cosa lì a me non piaceva mica. 

Appoggiai il libro di Murakami per terra vicino al divano, nel posto in cui un’ipotetica moglie avrebbe messo un comodino, infilai un paio di scarpe e valutai rapidamente se la mia maglietta entrasse nella categoria A, elegante se non hai la pancetta o B, buona solo come pigiama. Era una C, valida come capo di abbigliamento diurno entro 500 metri da casa. 

Un’altra goccia piombò sul mio divano. Avevo bisogno di un secchio, pensai, ma io i secchi in vita mia li avevo solo visti sul Topolino, fatti di pezzi di legno tenuti insieme da un cerchio di metallo, non ero sicuro esistessero davvero. Quindi optai per una pentola antiaderente senza un manico e un fondo grattato che veniva il cancro solo a guardarlo. 

Uscì sul pianerottolo e da bravo scemo mi resi conto che mi trovavo all’ultimo piano, un vicino al piano di sopra non ce l’avevo. La chiocciola delle scale sbatteva contro la mia porta e tanti saluti. Chiaramente doveva essere un’infiltrazione dal tetto, o una tubatura difettosa (perchè la mia educazione umanistica mi faceva supporre che ci fossero tubature nei tetti, con l’aspetto di quel vecchio gioco per computer dove dovevi creare un percorso di tubi prima che l’acqua li invadesse). 

Scendendo le scale, ragionai che un tetto sopra il mio appartamento non c’era nemmeno. Le mie finestre davano sulla strada e, se si guardava in alto, l’edificio continuava ancora per uno o due piani, forse un piano e una mansarda. 

Arrivato in strada, ne ebbi conferma: il mio condominio mi fissava come un monolite, stranamente più grande di quello che mi aspettavo. C’era un piano sopra a casa mia, ma le mie scale non ci arrivavano. La mia immaginazione si figurò un ascensore segreto che si attivava con una serratura al posto dei tasti, anzi, con un incavo che si poteva azionare solo con un anello massonico come quello dell’episodio dei Simpson in cui Homer entra nella confraternita dei Tagliapietra. Una volta attivato, l’ascensore avrebbe raggiunto il piano segreto, dove evidentemente si trovava una penthouse con piscina. Ma nel mio condominio da 450 euro in nero al mese un ascensore di sicuro non c’era, e se ci fosse stato sarebbe stato rotto. 

Un’osservazione aggiuntiva mi portò un passo più vicino alla soluzione di quel grattacapo: c’era un solo edificio, ma dovevano esserci due entrate, che conducevano a due condomini che condividevano le stesse mura, ma erano separati l’uno dall’altro. Casa mia aveva solo una finestra che dava sulla strada, e lì ne vedevo tre. C’era un’altra entrata, che conduceva a un condominio adagiato sul mio come il pezzo a L del tetris si adagia sul pezzo quadrato. 

Circumnavigai il palazzo, arrivando in un vicolo deserto. Ci ero passato altre volte, ogni tanto la sera alcuni ragazzi prendevano delle birre da un bar vicino e si sedevano lì a berle. Ma di un ingresso non c’era traccia. Girai l’angolo, trovando il Bar dove i ragazzi compravano le birre, ancora chiuso. 

Girai ancora l’angolo, e venni investito da una zaffata di profumo di sapone fatto con bacche raccolte da donne del Ghana salvate da violenze domestiche di Lush. La sua vetrina colorata sembrava essere l’unica aperta in quel giorno d’afa. L’estate aveva spopolato la città, solo la sera sapeva animarla un po’, e in strada non c’era nessuno che potesse giudicarmi per la mia t-shirt di classe C. 

Girai di nuovo l’angolo e tornai alla partenza. Girai altre volte, ossessivamente, guardando di continuo la massa incombente del doppio palazzo. Mi fermai nell’ombra del vicolo, e finalmente vidi la porta. Non avrei mai considerato fosse l’ingresso di un palazzo, la consideravo alla stregua di una panchina per i ragazzi della birra. Ma quell’incavo quasi invisibile era una porta, con un citofono schiacciato contro la sottilissima parete come un ninja appiattito nel tentativo di nascondersi da un inseguitore. Era il citofono più vecchio che io avessi mai visto, i tasti di plastica ingialliti mi ricordavano quelli del condominio milanese dove avevo passato la mia infanzia. Pensai fosse rotto, che non ci fosse nessun nome dietro la patina opaca dei tasti. Però sull’ultimo, quello più in alto, c’era una lettera. Una M. Immaginai, forse sperai, che fosse lui il mio vicino acquatico. Premetti.

Un fischio, uno sfrigolio analogico che sapeva di nostalgia. Poi quel fruscio ovattato che accompagna le conversazioni al telefono. Poi una voce di donna.

“Il telefono da lei chiamato è spento o irraggiungibile. Prema 1 per il servizio richiama.”

A glitch in the matrix. Mi guardai dietro le spalle, per vedere se ci fosse qualcuno che si godeva quella scenetta paradossale. 

Dieci minuti dopo, sul mio divano, Salvatore Aranzulla mi informava che alcuni citofoni funzionano con una sim, e che sono soggetti a tutte le sfighe che solitamente attribuiamo ai telefoni cellulari. Il caso era comunque strano. Le foto dei citofoni che Salvatore aveva scelto per decorare la pagina erano tutti moderni ciclopi dotati di videocamerina, con i tasti che erano quadratini di puntini di gomma ergonomica. Niente a che fare con il cassone anni ottanta che decorava lo stipite della porta nel vicolo. Mi grattai il collo, che era un gesto che facevo per concentrarmi, soprattutto quando il sudore incontrava la mia barbaccia incolta irritandomi tutto. Lanciai un’occhiata alla pentola, già piena per metà di acquetta torbida. C’era bisogno di una soluzione, ma sinceramente ero senza idee. Aspettare che il vicino uscisse? Un piano fattibile, dispendioso in termini di tempo, certo, ma il tempo è lo stipendio della disoccupazione. Magari chiamare il padrone di casa, e chiedergli se conosceva il padrone dell’altra casa. Mi resi conto che era un’idea un po’ tonta, come se tutti i padroni di casa della città si trovassero la sera a un club a bere birra e giocare a bocce. Mi rigrattai il collo.   

Uscii la sera, con una maglietta di classe A, per andare a prendermi una birra. Non al bar vicino al vicolo, ma decisi comunque di passarci, per dare un’altra chance al citofono. 

Davanti alla porta si trovava un uomo. Si vedeva che stava leggendo il citofono, ma non sembrava intenzionato a volerlo premere. Mi avvicinai.

“Mi scusi, Lei vive qui?” chiesi. 

Lui si voltò a guardarmi. Aveva la pelle abbronzata, un fitto cespuglio di minuscoli riccioli sulla testa, e delle labbra fastidiosamente carnose. Indossava un chiodo di cuoio da motociclista, con le spalline imbottite che gli conferivano un’aria in bilico tra l’epico e il buffonesco. I jeans erano infilati in due pesanti scarponi chiodati.

“No.” rispose. Poi si voltò, e sparì oltre il limite del vicolo.

つづく

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