Il birrificio era l’estremo strascico della moda della birra artigianale, nata negli Stati Uniti e arrivata nella nostra città il consueto ritardo con il quale le mode raggiungevano quell’angolo di provincia, lo stesso principio per il quale, ogni tanto, incontravo persone che si emozionavano per il sushi. La taproom brillava di luce dorata in mezzo al grigiore di un paesaggio industriale di periferia, capannoni di aziende di trasporti, un parcheggio di camperisti e un paio di case perse in mezzo all’industrializzazione, che rendevano per uno strano cavillo legale l’intera zona una zona abitata, costringendoci a spegnere la musica alle undici puntuali ogni notte. 

Quando entrai c’erano un gruppo di ragazze sedute sui divanetti, che la clientela prevalentemente maschile del posto faceva, per contrasto, sembrare una cavalcata di splendide valchirie della birra, qualche coppia di colleghi di ritorno dal lavoro, appollaiati sui tavoli bassi come gufi, più due tizi inerpicati sugli sgabelloni del tavolino alto subito fuori dall’ingresso che non avevo mai visto prima. Dietro il bancone Andrea mi stava già spillando una mezza mezza pinta, la porzione di assaggio, tirando a se una delle quarantadue leve che spuntavano dal muro di lavagna alle spalle del bancone, come trofei di caccia. 

“Questa è una IPA fatta con ananas e cetrioli in polvere.” mi disse, facendo slittare il bicchiere verso di me. Prima ancora di sedermi su uno degli sgabelli posizionati intorno al bancone, l’assaggiai.

“Si sente l’ananas. E il cetriolo.” Confermai. “Quanta gente nuova che c’è stasera.”

“Guarda taci, ce n’è uno che mi ha attaccato un torrone che non finiva più perchè non sa se divorziare dalla moglie o meno. Il dubbio gli è venuto perché ha conosciuto una dieci anni più giovane. Mi ha messo una tristezza!”

Il pub, il confessionale del tardo ventesimo secolo per noi quasi millenial.

“Tu cosa gli hai consigliato di fare?” Chiesi.

“Lo ascoltato attentamente e sorridendo, e lui alla fine mi ha ringraziato. Hai notato quante persone ti fanno una domanda, non aspettano la risposta, continuano a parlare del loro problema e alla fine ti ringraziano come se fossi il loro migliore amico?”

“Ho una studentessa così. Le nostre lezioni sono lei che parla in russo per cinquanta minuti della sua vita, e poi alla fine le faccio fare mezza coniugazione del verbo cuocere tanto per non sentirmi in colpa. E dopo ogni lezione mi manda un messaggino dicendomi che sono il miglior insegnante del mondo. Mi dai una bionda?” 

“No, ti faccio provare questa Gose acida. É fatta con bacche di ginepro e cioccolato.”

Era in effetti acidissima, ma fuori faceva caldo e risultò essere stranamente dissetante. La bevvi odiandomi per il male che stavo infliggendo alle mie papille, e allo stesso tempo senza fermarmi.  

“Hai visto Livio ultimamente? É da un po’ che non lo sento.” Chiesi.

É da un po’ che non lo senti perchè lui ti chiama ma tu non gli rispondi, porco. Dagli un po’ di soddisfazione ogni tanto.” Disse Andrea.

“Qual’era la sua ultima idea?” Chiesi, mentre controllavo il cellulare: avevo, in effetti, dieci sue chiamate senza di risposta, ventitrè messaggi di cui dieci vocali.

“Un fast food a tema trentino per valorizzare il territorio e svecchiare l’immagine che il resto d’Italia ha della regione. Lo vuole chiamare Roldego.”

“Che diavolo è un Roldego?”

“The Roldego.”

“Dio ci salvi.” dissi, dando un altro sorso alla Gose, arricciando il naso quindi bevendola di nuovo. 

“Però era settimana scorsa, forse sarà già al lavoro su un’altra cosa. Era venuto quì in birrificio. Ti voleva vedere per parlarti di affari, se non mi sbaglio.” Disse Andrea.

“E tu cosa gli hai detto?”

“Di passare dal birrificio, che vieni qui spesso.”

“Sei un fottuto traditore, lo sai?”

“Devo vendere la mia birra, porco.”

“Non è la tua birra, è di Zotta.”

“Se lui non c’è, è mia. Secondo giro?”

“Sì, una bionda.”

“Ti faccio una stout al mirtillo.”

Uscii con la mia mezza pinta nera come la pece e una sigaretta appollaiata sull’orecchio, che spostai subito tra le labbra. Oltrepassai la grande porta di vetro e mi sedetti vicino al tavolino alto. I due tizi che non avevo mai visto erano silenziosi. Il primo aveva l’aria di uno che veniva picchiato a scuola, camicia stra-abbottonata e occhiali spessi, l’altro aveva la barba e i capelli lunghi e un impermeabile color cammello inspiegabile data la calura estiva.

“Sera.” dissi, salutare mi sembrò naturale dato che avremmo condiviso il posacenere. Loro risposero con un sorriso cordiale e un silenzio diffidente.

Raggiunsi metà della sigaretta, e tre quarti della mia densa birra scura. Li vidi con la coda dell’occhio scambiarsi occhiate d’intesa, silenziosamente mettendosi d’accordo su qualcosa che stavano per fare. Poi quello coi capelli lunghi si schiarì la gola e mi disse:

“Senti, scusa il disturbo, possiamo sottoporti un quesito?”

“Sì, certo, chiedi pure.” dissi.

“Ti ringrazio. Dunque, immagina che ci sono degli hamburger e degli hot dog.” Non esattamente l’inizio di conversazione che aspettavo, ma abbastanza intrigante.

“Tipo… per cena, intendi?” risposi.

“No, sono vivi, come una piccola società di hot dog e hamburger che vivono nelle loro casette a forma di Happy Meal e di bottiglie di Ketchup. Sai, macchine di patatine fritte, grattacieli di ghiaccio e Coca Cola, una cosa del genere.” spiegò il capellone.

“Ah, ok. Quindi sono senzienti?” chiesi. I due mi guardarono perplessi. “Cioè, parlano? Hanno un governo, una società organizzata? Mi sembra di capire di sì, ci vuole una certa abilità ingegneristica per usare le patatine come materiale da costruzione.” Spiegai, cercando di delineare nella mia mente le caratteristiche di questo popolo di sottoprodotti della lavorazione della carne.

“Sì… cioè, non è importante. Insomma, un giorno c’è un hot-dog che capisce che non vuole più essere un hot dog. Vuole essere un hamburger.” Disse capelli.

“Ah, ho capito. Per avere un paragone con la nostra società, è un po’ come cambiare sesso? Tipo, c’è una clinica che ti tritano con un tritacarne e ti ridanno la forma di un hamburger?” Chiesi.

“Ma che caz… no, non è importante.” Disse capelli.

“Come non è importante? Non posso darti la mia opinione se non capisco i meccanismi sociali degli hot dog. Lo stato ha dei programmi di sovvenzioni per il cambio di pietanza? O perlomeno per i trattamenti ormonali post hotdog?” Chiesi io.

“Sì, un po’ così.” Disse occhiali.

“Non è per niente così!” Protestò capelli.

“Ma perché vuole diventare hamburger?” Chiesi.

“Come dire… è stufo. Vede il bel panino tondo da hamburger, e ci si vuole infilare dentro. Lo eccita.” Disse capelli. Lo disse con ispirazione, sembrava molto coinvolto in quello che aveva detto. Quasi a livello personale. 

“Ah, ok, allora è più una situazione da Romeo e Giulietta che da cambio di sesso?” Chiesi.

“Sì! Esatto, hai capito. Che bisogno c’era di tirare in ballo il cambio di sesso?” Chiese capelli scocciato.

“Non lo so, tento solo di capire di che tipo di società stiamo parlando. C’è qualcosa che mi sta sfuggendo? Hot dog e Hamburger sono una metafora di qualcosa?” Dissi io.

“Non è importante ho detto, ascoltami ora. Dicevo, lui vuole provare quei bei panini al sesamo rotondi, e trovarsi una bella hamburgerina.” Continuò capelli.

“Okay, ora mi confondi. Quindi in questo mondo gli hot dog e gli hamburger si accoppiano con il corrispondente tipo di pane o con membri del sesso opposto?”

Capelli si interruppe. Ci pensò.

“Okay, adesso stiamo esplorando la metafora un po’ troppo a fondo.” Disse.

“Ah, ma lo vedi che è una metafora allora!” Dissi io.

“Potremmo fare che si accoppiano con il corrispettivo pane, mi pare che sia anche più fattibile, una classica similitudine fallica.” Disse occhiali.

“Classica similitudine fallica, giusto.” Confermai annuendo.

“Okay, va bene, comunque, lui non ne può più di essere un hot dog. Ha diritto, secondo te, a cambiare vita, a diventare un hamburger? A lasciarsi alle spalle il suo vecchio panino allungato, e forse anche un paio di wusterini?” Mi chiese capelli.

“Non saprei, ha remore per motivi religiosi o sociali?” chiesi io.

“Sì, credo… immagino che si possa dire così. Sì, ha delle remore, ma chi non le avrebbe, sta per cambiare la sua vita in modo definitivo.” Rispose capelli.

“Okay, ho bisogno di sapere più dettagli su questa religione. È diffusa in tutti gli strati della popolazione, sono devoti? Oppure è come in Italia che tutti sono cattolici ma poi non vanno in chiesa?”

“Va bene, come non detto,forse non è il caso di continuare questa conversazione, ci sta sfuggendo di mano.” Disse capelli.

“Ma no, mi stava interessando, però dovete dirmi i dettagli esatti, non è che possiamo accontentarci di un world-building da quattro soldi.” Dissi, usando un termine che avevo letto in un manuale di scrittura fantasy. “Quando si scrive una storia c’è bisogno di un mondo verosimile. Il lettore si accorge sempre se lo scrittore sta parlando di qualcosa che non conosce, o un mondo immaginario campato in aria. Per questo Stephen King, anche se scrive romanzi horror, ha sempre un protagonista scrittore, o con cui condivide un episodio della sua vita. Bisogna pensarci a queste cose, altrimenti che storia viene fuori?”

“La religione non è così importante.” Disse occhiali, interrompendo la mia filippica (che in effetti stava per continuare).

“Ah, ok, visto? Non è un mondo in cui la religione gioca un ruolo fondamentale. Bastava dirlo, no?” Dissi io.

“Okay, allora dicevo. Lui non vuole più essere un hot dog, vuole andare a letto con questa hamburgerina…” Disse capelli.

“Panino da hamburger. Non confondiamoci adesso, ci eravamo messi d’accordo prima.” Dissi io. 

“Porco zio, questo merdosissimo hot dog vuole andare a letto con questo stronzissimo panino da hamburger!” Disse baffi, alzando la voce.

“Perfetto.” Dissi, annuendo.

“Scusate, io sono stanco, mi riaccompagni a casa?” Ci interruppe occhiali. Baffi si calmò istantaneamente.

“Va bene, aspetta, pago le birre.” Disse. Si alzarono tutti e due.

“Hey, e mi lasciate così sul più bello?” Chiesi io.

“Un’altra volta.” Rispose baffi, con la voce di chi sa che non ci sarà un’altra volta.

Rientrai da Andrea.

“Ti faccio un’altra bionda?” Mi chiese.

“Sì, per favore.”

Andrea mi riempì un’altra stout, e me la piazzò davanti. 

“Ho il soffitto che gocciola.” Gli dissi.

“In che senso? Ti entra acqua dal tetto?”

“Non dal tetto, a quanto pare non c’è nessun tetto sopra il mio appartamento, ma un’altra casa. E il proprietario deve avere dei problemi alle tubature, perchè da stamattina ad adesso ho già riempito due pentole.”

“Beh dai si risolve facilmente, puoi andare dal padrone di casa del piano di sopra e chiedergli di chiudere i rubinetti? 

“No, è impossibile.”

“è impossibile perchè sei timido?” 

“Non posso nemmeno entrare nel suo condominio. L’appartamento sopra il mio ha un ingresso separato, ho provato a suonare oggi ma non risponde nessuno, oppure il citofono è rotto… o entrambe le cose. La pulsantiera del citofono è vuota, pensa.”

“Come vuota? Nel senso che non ci sono pulsanti?”

“Nel senso che i pulsanti ci sono ma non c’è scritto sopra nulla, come se l’avessero appena messo, cosa che ti assicuro è impossibile perchè quell’affare potrebbe essere più vecchio di noi. Hai presente, vecchi tasti squadrati di plastica ingiallita? Un citofono come quello del condominio dei miei nonni di Milano, capisci il tipo?”

“I miei nonni vivevano in una baita.”

“Va bene Heidi, ma hai capito quello che voglio dire. Un citofono così vecchio dovrebbe avere sopra dei nomi, anche quelli della gente che ormai nel condominio non ci vive più. E invece quello ha tutti i tasti bianchi, tranne quello più in alto.”

“Anche a quello non risponde nessuno? Cosa c’è scritto sopra?”

Scossi la testa, troppo stanco per raccontare della storia del messaggio telefonico. 

“C’è scritto Emme.”

“Solo Emme? è un cognome?”

“No, solo la lettera M.”

“Forse i tasti si sono sbiaditi col tempo, e rimane solo quella lettera, magari era un Merz, una volta.” Disse Andre, citando uno dei cognomi più comuni dalle nostre parti. Io ci pensai, ma al momento non ricordavo se i tasti avessero l’aria di essere sbiaditi o meno. Mi pareva di no.

“Adesso non ricordo, dovrei ripassare.” Dissi. “Ma il risultato non cambia: non risponde nessuno.” 

“Allora dovresti chiamare il padrone dello stabile. Anche nel peggiore dei casi lui dovrebbe sapere chi ci vive, o da dove viene l’acqua.”

“Ti ho detto che non è il mio condominio, non ho idea di chi sia il padrone dello stabile.” 

“Cazzo, allora è davvero complicata, la faccenda. Dai, la bionda te la offro io.”

“Grazie Andrea.”

“Hai mai visto quel film, Hong Kong Express?”

“No.”

“C’è questo punto in cui il protagonista dice una donna che piange è un disastro. Ma quando è casa tua a piangere sei proprio fottuto.”

つづく

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