Riassunto delle puntate precedenti: l’infiltrazione d’acqua non si vuole fermare, in compenso discuto di un mondo abitato da hamburger e hot dog con due sconosciuti.

La goccia mi svegliò entrandomi in una narice, in disdegnoso spregio della forza di gravità. Mi alzai tossendo e imprecando, e il primo pensiero della mia testa intontita dal sonno fu ma io avevo messo la pentola per raccogliere le gocce, com’è che cadono ancora? Il secondo pensiero, già appartenente a una testa più sveglia fu la pentola serve per raccogliere le gocce, non per bloccarle. il terzo invece fu anche se servisse per bloccarle, la pentola è in salotto, e io invece sono qui a letto, quindi alzai la testa e vidi quello che mi aspettavo, una seconda macchia di umidità, gocciolante quanto (se non più di) quella in salotto. La forma ricordava alla lontana il Canada.

Spostai il letto dall’altro lato della stanza, rivelando un’enorme macchia di parquet scuro, nascosta per anni dall’ombra del materasso, e mettendo in fuga una famiglia di ragnetti. Andato in bagno presi il catino del bucato, occupato da un mucchietto di calzini e mutande che già macerava la dentro da qualche giorno, e lo svuotai senza tante cerimonie sul pavimento. Lo posizionai sotto la nuova macchia, più o meno in corrispondenza del Quebec. Il suono secco delle gocce che si infrangevano contro la plastica del catino mi ricordò un dispositivo di tortura cinese. Toc. Toc.

Non potevo più rimandare il problema, decisi che era il momento di scambiare due parole con il vicino. Avrei premuto quel pulsante fino a consumarmi il dito, e se non avesse risposto nessuno avrei aspettato fuori dalla porta che qualcuno rientrasse o uscisse, e se non fosse rientrato o uscito nessuno avrei chiesto al Bar, ai negozi nei dintorni e a chiunque fosse dotato della parola in un raggio di cento metri. Dopo un caffè.

La moka sfrigolò sul fuoco, mentre io, seduto sul bancone della cucina, controllavo il cellulare. Altre due chiamate senza risposta di Livio, che probabilmente aveva qualche affare da propormi. Una navigata veloce su Reddit, riscaldamento globale, meme di minecraft e qualcuno aveva scritto nella sezione pensieri improvvisi “In questo momento c’è della cacca dentro il tuo corpo.” Era vero. 

Passai a Whatsapp, Livio mi aveva lasciato un messaggio: chiamami quando puoi, ho un affare da proporti. Devo ammettere che invidiavo la sua tenacia. Nonostante ignorassi le sue chiamate, rispondessi ai suoi messaggi dopo ore con frasi inconcludenti, mi staggassi da tutto quello che mi taggava su Facebook, lui continuava imperterrito a contattarmi. Risposi con la faccina a forma di cacca. 

Le gocce cadevano disordinatamente, senza ritmo, a volte accelerando a volte concedendomi lunghi momenti di silenzio. Forse la doccia era difettosa. Forse il vicino misterioso era una signora anziana che, colta da infarto, aveva lasciato il rubinetto della cucina aperto mentre lavava le biete. Forse ci abitava Dio, che mi stava incitando ad abbandonare quella città e trovarmi un lavoro vero. 

Indossai la maglietta della sera prima e dei jeans un po’ strappati intorno al cavallo, scesi le scale inondate dall’odore di curcuma e cumino dei manicaretti del signor Singh che abitava al piano di sotto, feci il giro dell’isolato e imboccai il vicolo. Mi piazzai davanti ai tasti gialli del citofono con le gambe ben piantate a terra, come per sfidarli a duello. 

Mi chiesi che senso avesse aver messo due ingressi separati per lo stesso palazzo. Forse non era lo stesso palazzo, solo due palazzi costruiti in ere differenti e persone differenti, che erano finiti per ritrovarsi incollati tra loro, dopo anni di piccole modifiche e piccole aggiunte al progetto originario. Mi chiesi anche come mai solo il pulsante più in alto avesse sopra un nome. Come era possibile che un condominio in centro fosse praticamente disabitato, se non per quel nome, quella M. La schiacciai, ricevendo di risposta il consueto fruscio elettrico. Questa volta il fruscio continuò, continuò per lunghi secondi, fino a farmici abituare e ad assomigliare a semplice silenzio. Nessuna risposta. Premetti di nuovo. Sospirai. Premetti più forte, come se l’aumento di pressione facesse qualche differenza. Quando schiacciavo non si sentiva nessun suono, se non il fruscio dell’altoparlante e lo sfregare della plastica contro il metallo. Nessun trillo, nemmeno da dietro la porta. Schiacciai ogni pulsante, più volte, mollai un calcio alla porta.

“Porca puttana.” mormorai.

“Pronto?” disse una voce di donna, da dietro il fruscio.

“Pronto!” urlai io, preso alla sprovvista, e poi chiedendomi se era normale dire pronto al citofono.

“Pronto?” ripeté la donna. Non riuscivo a capirne l’età. Era molto rilassata. Come la voce di chi si è appena svegliato, ed è tutto sbadigli e stiracchiamenti, avvolto in lenzuola di seta su un materasso di piume. Quell’immagine mi venne in mente con un’incredibile potenza grafica. La donna aveva detto appena una parola, ma ero sicuro che quello era esattamente il suo stato in quel momento. 

“Buongiorno.” Dissi, incespicando un attimo sulla b. “È lei che abita all’ultimo piano del palazzo?” 

“Dipende da chi lo vuole sapere.” disse lei. In un primo momento mi sembrò una risposta arrogante, ma poi la sentii ridacchiare. Quella fu la prima frase che Emme mi disse, e notai che aveva un difetto di pronuncia, ma non capivo quale fosse. 

“Sono il suo vicino, del piano di sotto. È da ieri che ho il soffitto che gocciola, ne sa qualcosa?”

“Certo mmmm ne so una cosa o due.” disse lei. Ero sicuro che avesse un difetto di pronuncia. Parlare con lei era come vedere un film con l’audio in ritardo di un millisecondo. E quel mmmm, che si deve scrivere con la stessa lettera che c’era sul citofono, mi sembrò fuori luogo. Inappropriatamente soddisfatto.

“Come scusi?”

“Il fatto è che sono troppo bagnata.”

Sentì un colpo di tosse alle mie spalle. Una signora anziana con il bastone in una mano e un sacchetto di arance nell’altra mi stava lanciando, tra un fazzoletto in testa e due occhiali spessi come il binocolo di un cecchino, uno sguardo fatto di purissima disapprovazione.

“Signor… signorina, potremmo aprire la porta e discuterne?” Chiesi. La porta chiusa davanti a me era l’unica via di fuga.

“Ma mi vuoi già entrare dentro mmmm in casa mia?”

“Sì le vorrei entrare… cioè, mi può aprire e basta per favore?”

“E quando sarà dentro che cosa mi vuoi fare?”

“Ehm, parlarle dell’infiltrazione.”

“E se ti venisse voglia di parlarmi del colore dei miei occhi? Delle mie labbra? O della mia lingua? E se ti venisse voglia di guardarmi finchè il tuo sguardo non prendesse la consistenza delle carezze? Lo sai qual’è la consistenza delle carezze? La stessa dello zucchero filato. E lo sai quale parte del mio corpo ha il sapore dello zucchero filato?” 

Fui più che sicuro di sentire la signora alle mie spalle dire ma non si vergognano? Si stavano pure fermando altre persone.

“Avrai tutto il tempo per indovinare, mentre mi guardi. Voglio che mi consumi tutta di sguardi, quando la mia voce non ti basterà più, voglio sentire tutta la mia pelle ricoperta dei tuoi sguardi, li voglio sentire strisciare come le lumachine che trovi la mattina insieme alla rugiada. Voglio sentirli così tanto che poi, quando mi sfiorerai con la punta dell’indice, perderò completamente la testa.”

La mia attenzione rimbalzava come una pallina da ping pong tra la folla che si stava radunando alle mie spalle, quelle parole e una sensazione come di denso calore che si stava propagando dal mio basso ventre fino alle punte dei capelli. Stavo sudando.

“Signorina, potrebbe non…” Balbettai, prima che la donna dall’altra parte si producesse in un gemito talmente lungo e prolungato che mi stupii che l’altoparlante di un citofono potesse emetterlo. Ebbi il riflesso istintivo di riattaccare la cornetta ma mi resi presto conto che era un citofono quello, quindi caddi in preda al panico, mi guardai intorno in cerca di una via di fuga.

AH!” gemette la donna. Un gemito di quelli che fanno fischiare i microfoni, vibrare il vetro dei calici, far alzare il collo ai cani. Io non potei che arrossire e fuggire via a gambe levate. 

Mi ritrovai nel mio salotto, seduto sul divano. Cambiai l’acqua della pentola, feci una barchetta di carta e la misi dentro il catino, ancora mezzo vuoto. Camminai avanti e indietro come per digerire un pranzo pesante. Misi su un’altra moka, la bevvi tutta. Poi dissi:

“Cosa è successo?”

Il telefono mi vibrò in tasca. Lo presi, e vidi il numero di Andrea. Premetti il tasto verde.

“Andre, non hai idea di quello che mi è appena successo.”

“Ciao Pietro, sono Livio.” disse Livio. 

Rabbrividii. Mi parve di sentire in sottofondo uno di quelle colonne sonore da film horror, fatte di rumore bianco e gridi di bambini in lontananza.

“Ciao Livio. Sei con Andrea?” Domandai, a corto di domande migliori.

“Sì, mi ha prestato il suo telefono. Siamo a pranzo insieme. Potresti essere qui anche te se rispondessi alle mie chiamate, se solo tirassi fuori la testa da quella casa non ti perderesti tutte le opportunità che il mondo ha da offrire.” La sua voce era modulata su un unico tono, e scandiva le parole come se stesse dettando, a ogni pausa mi immaginavo un impiegato dattilografo portare a capo la sua stampante, come in un vecchio film giallo giudiziario americano.

“Non è che sono sempre chiuso in casa, sono stato un po’ occupato ultimamente. Facciamo un’altra volta, okay? Possiamo andare a prenderci una pizza.”

“Pietro, ho un affare da proporti.” Disse Livio, ignorando le mie parole.

Rabbrividii di nuovo. Livio aveva un lessico tutto suo di vocaboli presi a prestito da video su youtube su come essere una persona di successo. Li ripeteva così spesso che non potevo fare a meno di pensare che sarebbero stati l’ideale per un gioco da bere. Avevo perfino scritto le regole da qualche parte. Affare, uno shot di vodka. Business, shot di grappa. Contatto, due shot.  

“Sono tutto orecchi.” dissi.

“Sono venuto a sapere da un mio contatto che la provincia dispone di alcuni minibus inutilizzati, in buone condizioni. In pratica se proponi alla provincia un progetto per valorizzare il territorio” shot di limoncello “puoi noleggiarli a prezzi convenienti. Di solito la genta li noleggia per stupidaggini, gite scolastiche, servizi di navetta, nessuno ha delle vere ambizioni in questa città. Ed è qui che entriamo in gioco noi.”

“Okay, capito, quindi li vorresti noleggiare per..?”

“Un mio amico, un pezzo grosso, mi ha dato dei contatti di alcuni ricchi emiri Azeri, che vengono spesso a sciare in Italia. Gente con i soldi, con le Ville a Cortina e a Forte dei marmi, capisci cosa intendo?” Caraffa di tequila.

“Certo.” Dissi, poi pensai: ma “certo” cosa?

“Grazie ai minibus potremmo creare un’azienda di tour enogastronomici d’élite in tutto il nord Italia. Tu conosci le lingue, puoi fare da guida, da traduttore. Che ne dici?”

Spensi il cellulare, lo aprii e tolsi la batteria. Venti minuti dopo avrei detto che si era scaricato durante la conversazione.

Mentre, poco dopo, ero di nuovo impegnato a guardare Reddit, venni raggiunto da un messaggio di Andrea. Mi dispiace, è stata una sua idea. Sospirai, e ripresi a guardare foto di gatti. Ma dalla mia testa il gemito di Emme non se ne voleva proprio andare.   

つづく

2 pensieri su “Emme

Lascia un commento